Ma quale Steve Jobs! E’ Fantozzi il vero mito degli italiani. Ahinoi, la vera “follia” e “fame” è quella di un posto sicuro
Si è molto scritto in questi giorni sulla morte di Steve Jobs e sullo spazio che i giornali e i siti di tutto il mondo hanno dato a questo avvenimento, contribuendo quasi a una “beatificazione” di questo geniale imprenditore che era ed è stato un grande imprenditore. E che ha avuto inevitabilmente come conseguenza la diffusione di una “setta” uguale e contraria che considera Steve Jobs un “prodotto” del nostro tempo, quasi una persona fortunata di essersi “solo” trovato al momento giusto al posto giusto, non avendo “rivoluzionato” alcunché e a ben guardare nemmeno inventato nulla che non fosse stato inventato da qualcun altro.
Non è questo certo il mio pensiero come ho precisato nel mio blog MoneyReport.it in un articolo intitolato “Onore a Steve Jobs. Il più grande imprenditore dopo il Big Bang”.
Peraltro al geniale fondatore della Apple ho dedicato una biografia insieme a quella di altri 10 “special one” per un ebook appena pubblicato dal titolo “SUPER MILIARDARI. Da Steve Jobs a Mark Zuckerberg. Vita, Morte, Miracoli, Storie e Segreti degli Uomini più Ricchi del Mondo”.
MEGLIO FONDARE UN’ IMPRESA IN GARAGE O UN POSTO SICURO ALLA REGIONE SICILIANA O ALLA PROVINCIA DI TRIESTE?
Comprendo però alcune delle critiche più intelligenti alla “santificazione” di Steve Jobs come quella formulata da Antonio Socci su Libero (dal titolo “Ora basta! Jobs non era il Messia!”) che giustamente fra le altre cose ha messo in evidenza come molti quotidiani italiani come il Corriere della Sera hanno dedicato 8 pagine (!) alla morte di Steve Jobs. Un furore mediatico quasi assurdo considerato che normalmente in Italia i quotidiani italiani non dedicano tutte queste pagine nemmeno in un anno a temi come l’imprenditorialità! E che in Italia oramai si fa di tutto (basta vedere quello che hanno fatto gli ultimi governi compreso l’ultimo condotto peraltro da un imprenditore al “servizio del Paese”) per far passare la voglia (a giovani e meno giovani) di mettersi in proprio tanto che secondo le ultime ricerche (si veda per esempio questo illuminante articolo in seguito a una ricerca condotta da Adecco, la più grande agenzia per il lavoro in Italia) il sogno reale delle generazioni non solo più giovani non è diventare come Steve Jobs ma avere un bel posto fisso e sicuro, contributi, ferie e malattie pagate.
Si celebra Steve Jobs ma poi il mito resta avere un impiego alla Fantozzi. Magari maltrattati, offesi, sottopagati, umiliati ma avversi al rischio. Questa è l’amara realtà.
Spesso ci si riempe la bocca di citazioni alla Jobs del tipo “Siate affamati, siate folli” ma fra una carriera incerta come imprenditore, commerciante, libero professionista o artigiano e un posto alla Regione Siciliana, un impiego come vigile urbano o un impiego da travet si preferiscono questi tipi di lavoro. “Tengo famiglia” aveva scritto tempo fa Ennio Flaiano. Doveva essere il motto da mettere magari all’interno del tricolore dal momento che la sua intuizione è sempre più drammaticamente vera.
UN LENTO MA INESORABILE DECLINO QUELLO ITALIANO. NON SIAMO AFFAMATI, NON SIAMO FOLLI!
E se si guardano le statistiche la situazione è desolante e tutti i dati confermano che nel nostro Belpaese nell’Unione europea siamo indicati fra le nazioni dove è più difficile intraprendere un’attività imprenditoriale e siamo anche in fondo alle classifiche dei Paesi che attraggono gli investimenti stranieri mentre il Pil pro-capite è tornato ai livelli del 1999. Un calo continuo e pericoloso. Se all’inizio degli anni ’90 un italiano medio guadagnava un 6% in più rispetto alla media dei suoi “fratelli” europei oggi si trova nella situazione opposta e guadagna il 93% della media UE.
Qualche anno fa prendevamo in giro i polacchi e li raccontavamo come “lavavetri”: ebbene oggi a giudicare il prezzo dei credit default swap (l’assicurazione che copre il rischio emittente ovvero la possibilità che una società o uno Stato possa fallire) la Polonia viene giudicato nettamente più solida, affidabile e con prospettive più sicure dell’Italia.
E c’è da stupirsi se gli ultimi dati della Confindustria e dei centri studi dicono che l’Italia in termini di competitività ha perso 33 punti in 15 anni rispetto alla Germania e se la nostra produzione industriale in questi anni è calata rispetto ai massimi del 17 per cento, contro l’1 della Germania, il 9,8 della Francia, l’8,9 del Regno Unito?
“Siate affamati, siate folli”: ad applicare questo credo se si leggono le statistiche delle nuove imprese sono soprattutto gli extracomunitari: un imprenditore su 10 è nato all’estero. Loro sono sempre più i veri seguaci di Steve Jobs: hanno la “fame” di emergere e la “follia” dell’intraprendenza.
Sempre meno italiani “doc” invece si mettono in proprio per quanto questo dato è spesso falsato dalle finte “vocazioni” di chi nasconde dietro la partita iva un rapporto di lavoro spesso subordinato e precario frutto anche di una legislazione (e fiscalità) sul lavoro dipendente assurda e punitiva che scontenta tutte le parti.
MA NEMMENO “GRANDE STAMPA” E GHOTA DELL’IMPRENDITORIA ITALIANA SONO SPESSO DI GRANDE ESEMPIO, ANZI.
Ci sarebbe poi da tentare una sorta di analisi sulle ragioni profonde che hanno portato a questa celebrazione perfino esagerata (e lo dico da fan come imprenditore di Steve Jobs e non certo da critico distruggi-tutto) della figura del fondatore di Apple. Una sorta di rito liberatorio di buona parte dei giornalisti italiani liberi forse finalmente di scrivere senza gabbie di un vero grande imprenditore. E pazienza se in diversi casi si è perfino esagerato come sostengono i critici: se fra qualche settimana, mese, anno o decennio ci sarà qualcuno che deciderà di mettersi in proprio magari perché “ispirato” dalla storia di Steve Jobs ci sarà solo da rallegrarsene e gioirne (come spiegherò magari in un altro articolo).
Cosa leggiamo, alla fine dei conti, sui quotidiani italiani nelle pagine economiche-finanziarie?
Tranne rare eccezioni e poche penne di pregio in circolazione la “sbobba” che ci viene rifilata sono soprattutto notizie di agenzie che troverete poi quasi tutte uguali su tutti i quotidiani (e questo non vale solo per le pagine economiche, naturalmente), comunicati stampa “abbelliti” (dove le notizie vengono di fatto scritte dalle agenzie di pubbliche relazioni per incensare i loro clienti) e articoli di “riguardo” quando si parla dei propri grandi azionisti e inserzionisti e lenzuolate poi di listini di Borsa. Oggi sono un po‚ esagerato e cattivo lo ammetto ma spesso purtroppo è questa l’impressione che ho della stampa economico-finanziaria italiana e non solo come lettore, avendo in tasca dal 21 febbraio 1995 pure il tesserino da giornalista professionista. “Carta straccia” come bene ha scritto il grande e coraggioso Giampaolo Pansa nel suo amaro ma sincero penultimo libro.
Riguardo poi la gestione del risparmio qui il conflitto d’interesse con gli inserzionisti raggiunge spesso vette supreme ed è sempre più frequente vedere l’intervista “marchetta” a un gestore con la pagina pubblicitaria a fianco. Ma questo è un altro discorso (che ho in parte affrontato in un mio libro precedente dal titolo “Bella la Borsa, peccato quando scende” in un capitolo intitolato “Una vocina mi ha detto. Come difendersi da insider, Internet e giornali”).
Accade così che i grandi imprenditori che i lettori italiani si vedono proporre da anni come “campioni” siano (o sono stati) personaggi dall’ascesa o dalle capacità gestionali spesso discutibili e costellate di “file” non sempre proprio edificanti. Dagli Agnelli (procuratevi su Amazon.it il libretto allegato qualche mese fa sull’eredità contesa degli Agnelli “L’importanza di chiamarsi Agnelli” pubblicato da Milano Finanza se avete ancora un culto per la figura dell’Avvocato e della sua famiglia) a Carlo De Benedetti, da Salvatore Ligresti a Marco Tronchetti Provera et similia.
E non a caso tutti questi personaggi oltre a un’importante frequentazione con le stanze del potere politico italiano hanno tutti uno zampino nella grande editoria italiana, sedendo nei consigli di amministrazione delle case editrici più importanti come azionisti “no profit” a vedere il ritorno economico (totalmente negativo) di queste “diversificazioni” che in realtà tali non sono perché completamente funzionali al capitalismo di relazioni, “consorterie” (come gridava un personaggio interpretato da Sergio Castellito in “Caterina va in città”) e salotti che caratterizza il gotha dell’imprenditoria italiana.
E avrà fatto sorridere o arrabbiare (ma ha dato la “cifra” del gotha del capitalismo italiano) il ricordo che Carlo De Benedetti ha fatto di Steve Jobs qualche tempo fa in una lunga intervista televisiva e che qualcuno si sarà magari ricordato in questi giorni: «Avevamo un laboratorio a Cupertino come Olivetti. Sono andato una sera a visitarlo in un garage. Se avessi messo allora 100 mila dollari, cifra che lui stava cercando, oggi sarei famoso per essere uno degli uomini più ricchi del mondo».
Corsi e ricorsi storici (o “sfiga”?) sulla lungimiranza di imprenditori, manager e banchieri italiani quando si parla di nuove tecnologie e finanziare giovani e start up se si ricordano anche i tre manager ex Omnitel (Francesco Caio, attualmente ad di Avio dopo aver fatto in questi anni il giro delle sette chiese, Emanuele Angelidis, ex amministratore delegato di Fastweb e a Barbara Poggiali, numero uno di Dada) che circa 5 anni fa uscirono da Twitter pagato qualche decina di migliaia di dollari perché lo consideravano un “cattivo affare”. Una società che oggi viene valutata quasi 10 miliardi di dollari mentre Apple è la società con la capitalizzazione di Borsa più elevata al mondo: 266 milioni di euro. Quasi quanto valgono tutte le società quotate italiane..
Aver scritto e riscritto in questi mesi l’ebook “SUPER MILIARDARI. Da Steve Jobs a Mark Zuckerberg. Vita, Morte, Miracoli, Storie e Segreti degli Uomini più Ricchi del Mondo” mi è sembrato quindi quasi una boccata di aria pura in confronto, ripercorrendo le storie, i segreti e le lezioni di imprenditori (talvolta anche più “figli di buona donna” di alcuni imprenditori italiani, certamente) del calibro di Steve Jobs o Mark Zuckerberg (Facebook), lo scomparso Nicholas Hayek (Swatch), il discusso Roman Abramovich, il figlio di “papà” e velista Ernesto Bertarelli, il leader degli U2, Paul David Hewson (in arte Bono Vox), il ribelle Richard Branson, i maestri mondiali del “marketing” Ingvar Kamprad (Ikea) e Philip Knight (Nike), il funambolico fondatore del Cirque du Soleil, Guy Lalibertè o lo scalatore di Gucci, il francese venuto dal nulla, Francois Pinault.
Ma ce ne sarà modo per parlarne come degli imprenditori italiani (e fortunatamente nonostante tutto ce ne sono ancora, piccoli, medi, grandi e grandissimi) che meritano il nostro onore e rispetto perché hanno operato e operano (soprattutto oggi) in condizioni di mercato sempre più difficili. Come correre col vento contro!
A cura di Salvatore Gaziano